giovedì 5 febbraio 2015

La Buona Annata's Literary Supplement: Nell'isola degli automi

Si era svegliato sulla spiaggia, coperto di rena fino al collo, mezzo seppellito, e, aprendo gli occhi e sollevando il corpo sotto quel fulgore di sole, si sentiva così stordito da non potersi spiegare in che modo si trovava colà.
Dov'era?... E il bastimento?... E suo padre?
Il ragazzo si vide accanto un grosso cane, che agitava la coda in segno di festa, guardandolo affettuosamente. E si rizzò, scotendo la rena dai calzoni e dalla camicia.
E la giacchetta?... E le scarpe?
Ora cominciava a rammentarsi: la tempesta che aveva sballottato il bastimento, l'urto sugli scogli, le grida, la confusione, la barchetta in cui l'avevano buttato... e più niente! Si era svegliato dopo aver dormito chi sa quante ore! Il sole era alto... Quando l'avevano buttato nella barca faceva buio, e i lampi illuminavano, di tratto in tratto, i cavalloni spumanti, che si riversavano addosso al bastimento quasi per sommergerlo.
Guardò attorno verso terra, guardò lontano verso il mare. La spiaggia saliva, arida, senza che vi si vedesse anima viva; il mare ondeggiava tranquillo, solcato da lunghe strisce, che sembravano stradoni tracciati sulla faccia delle acque. Non un legno, non una barchetta.
Un senso di paura e di sconforto invase il ragazzo, che non osava accostarsi al cane.
Eppure il povero animale lo festeggiava con gli occhi e con la coda, quasi si aspettasse una carezza. 
Il ragazzo si sentì riempire gli occhi di lacrime, e chiamò con un grido: "Babbo! Babbo!"
Il cane cominciò a saltellargli attorno; fece un tratto di spiaggia, tornò addietro, abbaiando allegramente e riprese a correre.
Vuole indicarmi la strada? pensò il ragazzo.
E, timidamente, palpò la schiena del cane, che subito si slanciò alla corsa, voltando la testa di tanto in tanto. Sembrava dicesse: "Seguimi! Seguimi!"
Il disgraziato, che si vedeva solo, abbandonato, in un posto sconosciuto, non sapeva risolversi ad allontanarsi; suo padre doveva essere andato in cerca di soccorsi; lo aveva lasciato là, coprendolo con la rena per fargli asciugare gli abiti inzuppati di acqua marina; doveva tornare a riprenderlo... Ma il cane abbaiava da lontano, fermato sulle zampe davanti protese un po'...
Di chi era quell'animale così buono e così intelligente?
Singhiozzando, con voce strozzata, il ragazzo chiamò di nuovo: "Babbo! Babbo!"
E stette ad attendere che qualcuno apparisse, che qualcuno gli rispondesse. Le lacrime gl'inondavano la faccia, il cuore gli diventava piccino piccino. Suo padre era morto, annegato?... E si rivoltò con occhi atterriti verso la spiaggia, verso il punto dove acuminati e aspri si rizzavano gli scogli, che le ondate del mare lavavano a riprese, cingendone la base con cerchi di spuma.
Il cane riprese ad abbaiare, quasi stizzito di non vedersi seguire.
Il ragazzo si decise improvvisamente, e fece di corsa il tratto di spiaggia in salita. Lassù, si arrestò maravigliato.
Come con un cambiamento di scenario, gli era apparsa davanti gli occhi una vasta estensione di terra tutta verde di erba, di alberi, di pianticine, solcata orizzontalmente da una corrente di acqua che parva argento liquefatto e si perdeva laggiù tra le ultime collinette. Nella pianura, lontano, tra gli alberi, una casa bianca col tetto rosso, davanti alla quale si arrestava la strada larga e diritta, che cominciava a pié del versante dell'altura dov'egli si era fermato. In quella casa c'era gente, senza dubbio. Come lo avrebbero accolto?... Forse suo padre era andato colà?
E l'idea di ritrovarvelo gli fece affrettare i passi.
Alla volta del viottolo si arrestò.
Sotto un albero, ritto e appoggiato al tronco, c'era un uomo, che lo guardava fisso fisso. Il cane era andato a saltellargli attorno, a leccargli le gambe. Colui parve scotersi, cominciò a movere lentamente la testa in segno di buona accoglienza, e tese un braccio per indicare la strada, dicendo con voce un po' stentata e nasale: "Tout droit, allez! Tout droit, allez! Avanti, diritto! Avanti, diritto!"
Pareva inchiodato al suolo su una specie di rialzo circondato di pianticine, e, parlando, continuava a fare la stessa mossa della testa, lo stesso gesto del braccio, e gli occhi lucidi, con sguardo fisso, avevano una strana espressione.
Il ragazzo ebbe paura, specialmente quando colui rialzò lentamente il capo, abbassò lentamente il braccio e rimase immobile con gli occhi fissi.
Il cane era tornato sul viale e andava avanti. Il ragazzo non credeva ai suoi occhi. Quell'uomo, che pareva una statua, doveva esser vivo, giacché si era mosso e aveva parlato; ma doveva essere un po' matto, pensava il ragazzo. E per ciò gli passò davanti quasi senza guardarlo, rispondendogli: "Grazie!" per non irritarlo. Si rivolse a dargli un'occhiata dopo aver fatto una ventina di passi. Colui se ne stava appoggiato al tronco, immobile. Allora il ragazzo riprese a seguire il cane, senza più voltarsi.
Più avanti, anche sotto un albero, seduta su una seggiola appoggiata al tronco, una vecchia signora leggeva. Il cane corse a saltellarle attorno, a leccarle la veste. La signora levò gli occhi dal libro, cert'occhi strani, lucidi, con sguardo fisso come quelli di quell'altro, volse la testa verso il ragazzo e gli disse, con voce un po' stridula: "Bien arrivè! Bien arrivè! Bene arrivato! Bene arrivato!"
"Scusi, signora!" rispose il ragazzo. "Ha veduto mio padre?..."
Ripeteva le stesse parole in due lingue, ma il ragazzo capiva soltanto l'italiano.
Egli si sentiva strabiliare. Che strana gente! Non osò fare un passo verso la vecchia signora, la quale aveva già abbassato gli occhi sul libro, senza più curarsi di lui.
Il ragazzo andava dietro al cane, facendo mille supposizioni, guardando qua e là se mai potesse scorgere altre persone e sapere qualcosa di suo padre. La vista della casa bianca, là in fondo, di cui ora poteva scorgere la porta e le finestre chiuse, gli dava coraggio.
Tutt'ad un tratto, egli gettò un grido. Da una siepe di bosso, che fiancheggiava il viale, era sbucato improvvisamente un vecchio, curvo, appoggiato a un bastone, con larga veste da camera a fiorami e berretto di velluto. La barba, bianchissima, gli scendeva sul petto; i capelli candidissimi gli circondavano la faccia veneranda. Sorrideva, gli accennava di accostarsi. Pronunziate le prime parole, e capito subito che il ragazzo intendeva soltanto l'italiano, egli prese a parlargli in questa lingua, pronunziandola un po' male: "Non aver paura. Chi sei? Come ti chiami?"
"Mi chiamo Nino Raggio. Mio padre è qui?... Andavamo in America... Mio padre è capitano di bastimento... Abbiamo avuto la tempesta..."
"Ho capito," rispose il vecchio. "Vieni con me." E gli tese la mano.
Questo qui era diverso dagli altri; non aveva quegli occhi strani, quella voce stridula e si moveva.
"Hai appetito?"
"Ho fame..."
"Cògli quest'arancia; sbucciala. Intanto andremo a casa."
Ma lungo il viale Nino Raggio era passato di sorpresa in sorpresa. Di tratto in tratto il vecchio si fermava davanti a un personaggio appostato, come gli altri due, sotto un albero. Uno spaccalegna, appena li vide, si metteva a menare la scure, cantando, senza badare a loro; un ragazzo portava alle labbra un flauto e cominciava a sonare; un soldato spianava il fucile contro di essi e gridava: "On ne passe pas! Non si passa!"
"Noi passeremo," disse il vecchio, sorridendo.
"Non si passa! Non si passa!" ripeteva intanto il soldato.
Aveva quasi la stessa voce stridula di quegli altri, gli stessi sguardi fissi e lucenti, e Nino Raggio stringeva forte la mano del vecchio.
"Presentat'arm!"
Al comando, il soldato presentò l'arma e restò fermo, quasi la voce del vecchio lo avesse paralizzato.

Erano arrivati davanti alla casa. Ai lati della porta stavano seduti due nani. Il vecchio picchiò col bastone su una piccola piastra di rame incastrata nel suolo, e improvvisamente la porta e le finestre si spalancarono; i nani si misero a saltare, agitando le braccia e le teste; a ogni finestra si affacciò una persona con lo strano aspetto di quelle vedute per istrada, cioè con occhi lucidissimi, sguardo quasi fisso, e la pelle del viso che sembrava dipinta. Tutte agitavano braccia e teste, come prese da pazza gioia per l'arrivo del vecchio; poi, assumendo atteggiamenti composti, si mettevano a cantare. Alla luce del sole, quei personaggi avevano qualcosa che ripugnava, che faceva paura; sembravano gente morta, galvanizzata da corrente elettrica, e che sarebbe da lì a poco, tornata a morire e a disfarsi.
Nino si stringeva ai panni del vecchio e lo guardava per accertarsi ch'egli era dissimile da coloro, veramente vivo.
Intanto quei signori avevano terminato di cantare e, con la stessa celerità con cui erano apparsi e si erano mossi, sparivano dalle finestre; i due nani si rimettevano a sedere, immobili, guardando davanti a sé con gli occhi lucidi e fissi.
"Entriamo; non aver paura," disse il vecchio.
Passando accanto ai due nani, il ragazzo capì che quei due mostriciattoli erano due pupazzi. Eppure si erano mossi, avevano saltato, avevano agitato braccia e teste, e cantato insieme con gli altri!
Chi era dunque quel vecchio? Un mago?
Gli usci delle stanze erano chiusi; ma appena egli e il vecchio si accostavano, gli usci si aprivano come per incanto, li lasciavano passare e si richiudevano dietro a loro.
Questo atterrì talmente il ragazzo, che egli scoppiò in pianto.
"Non aver paura," replicò il vecchio, entrando in un vasto salone. "Qui tutto è meccanismo. Guarda: premo col piede questo bottone."
Non aveva finito di dire e di premere un bottone, quasi invisibile sul pavimento, che i quattro usci si spalancarono e dalle pareti sbucarono una dozzina di personaggi gridanti: "Comandi!"
E per tutta la casa scoppiò la stessa parola: "Comandi! Comandi!"
Aveva un bel dire il vecchio: "Non aver paura!"
Quel che Nino vedeva era così sorprendente, che ne avrebbe avuto paura anche una persona più ragionevole di lui.
"Ora domandiamo notizie di tuo padre."
Nino, a queste parole, si sentì rinfrancare.
Il vecchio si era accostato a una buchetta rotonda della parete di faccia, vi aveva applicato le labbra e si era messo a borbottare; non si capiva quel che diceva. Quando ebbe finito, prese un tubettino di causciù, alla cui estremità biforcata erano adattate due ghiande nere, se le applicò nella cavità degli orecchi e stette ad ascoltare. Nino lo guardava ansiosamente; avrebbe voluto leggergli la risposta negli occhi.
"Fra due ore tuo padre sarà qui." disse finalmente il vecchio, togliendosi l'apparecchio con cui era stato ad ascoltare. "Intanto mangerai e ti divertirai coi miei automi. Ecco, arriva la colazione."
Si udiva un fischio simile a quello di una piccola locomotiva; sempre più forte di mano in mano che si accostava. Poi gli usci si richiusero, i personaggi rientrarono nelle pareti, dove non si scorgeva traccia di porticine, e nel centro della stanza si aprì un pavimento, si levò su, lentamente, un tavolino con la tavola apparecchiata, e le tavole del pavimento, che si erano scostate, tornarono a commettersi.
Nino, nello sbalordimento, non aveva più sentito lo stimolo della fame; la vista dei piatti fumanti gli ridestò l'appetito.
Gongolava di gioia al pensiero che fra due ore avrebbe riveduto suo padre; e per ciò mangiò con gusto, quantunque un po' impaurito di uno di quei soliti personaggi, che girava girava attorno alla tavola, dietro le seggiole e che di tratto in tratto si fermava, stendeva il braccio, afferrava una bottiglia e gli versava acqua o vino, secondo che il vecchio ordinava.

Abbracciato stretto stretto al collo di suo padre, Nino aveva ascoltato, raccapricciando, il racconto delle peripezie del bastimento della notte precedente. Quando lo aveva fatto buttare nella barchetta, affidandone la sorte a un marinaro, il capitano aveva già perduto ogni speranza di rivedere suo figlio. Al chiarore dei lampi aveva visto battere tra gli scogli la barchetta, poi aveva visto il marinaio lottante coi cavalloni e da questi gettato, insieme col ragazzo, miracolosamente sulla spiaggia. Poi, per alcuni minuti che gli erano parsi secoli, niente. Altri lampi, poco dopo, gli avevano fatto scorgere l'imprudente marinaio tratto di nuovo dai cavalloni; ed egli era rimasto, fino a poco addietro, nell'incertezza se il ragazzo avesse avuto lo stesso destino. La tempesta, intanto, avvolgendo quasi in un vortice il bastimento, gli aveva fatto fare il giro delle coste dell'isoletta, e così, al cessare dell'uragano, il bastimento, senz'alberi, senza vele, in piena balìa delle onde, si era trovato davanti a un piccolo seno, dove tutto l'equipaggio aveva potuto prendere terra.
Terminato il racconto, fu la volta del capitano nell'interrogare.
Egli non era maravigliato meno di suo figlio delle cose che vedeva.
"Vivo qui da quarant'anni," disse il vecchio.
"Sempre solo?"
"Con quella piccola tribù d'operai che avete vista nell'altra parte dell'soletta. Quarant'anni fa, quest'isola era uno scoglio; io l'ho trasformata."
"In che modo?"
"Con la meccanica, con la scienza e con l'altra e con l'altra forza che vale quanto essa: la pazienza! Tre quarti dell'isola appartengono a quegli operai. Quest'altro quarto... è il mio eremo; nessuno di loro vi ha posto mai piede. Tutto quel che qui vedete è opera delle mie mani. I casi della mia vita mi avevano spinto a odiare i miei simili, e per ciò ho voluto avere attorno a me creature, che avessero sembianza di persone viventi, ma che non potessero fare nessun male. E mi sono circondato di automi. Le mie ricchezze mi hanno permesso di cavarmi questo capriccio. Io sono pronipote del celebre Vaucanson, di cui certamente avrete sentito parlare. Avevo ereditato anche il suo genio meccanico, e voi vedete qui se ho saputo riprodurre e superare le maraviglie del mio antenato. Il resto non importa, non può interessare altri all'infuori di me e non voglio neppure ricordarlo."
Il capitano disse a suo figlio: "Guarda bene questo signore. Un giorno potrai dire di aver conosciuto un gran genio. Ti parrà un sogno e forse vorrai tornare a rivederlo."
Il vecchio sorrise, accarezzò la testa del bambino e soggiunse: "Ma non mi troverai! E forse non troverai traccia neppure dell'isola. Intanto permettete alla mia vanità senile di guidarvi pel mio eremo. Qui tutto avrà vita, o, meglio, movimento per un'ora."
E così dicendo si alzò da sedere, girò più volte una manovella nascosta sotto il drappeggiamento di una tenda... e la casa fu piena a un tratto di rumori, di canti, di suoni, di persone che andavano, venivano, parlavano, quasi fossero degli invitati ai quali fossero state aperte ospitalmente le sale.
Il capitano stentava a credere si trattasse di automi, cioè di personaggi, che agivano per via di complicati meccanismi interni.
"Questi giocano una partita," disse il vecchio.
Infatti quattro giocatori erano seduti a un tavolino. Uno di essi, mescolato un mazzo di carte, le aveva distribuite, e tutti e quattro, uno alla volta, buttavano le carte, le raccoglievano dal tavolino, picchiavano su di esso, facendo tutti gli atti dei giocatori appassionati. Uno, di tratto in tratto, pareva si spazientisse, buttava le carte, tentava di rialzarsi; i compagni lo trattenevano, lo facevano rimettere a sedere.
Se il capitano non si fosse accorto che buttavano e prendevano le carte a casaccio, pur facendo le viste di giocare attentamente, avrebbe dubitato che quei quattro silenziosi giocatori fossero stati uomini, che fingessero di fare gli automi.
Intanto una signorina, coi biondi capelli spioventi sulle spalle, seduta al pianoforte lo aveva aperto e si era messa a sonare. Anche qui, se il capitano non avesse osservato che le dita sfioravano soltanto i tasti, e che il pianoforte sonava per mezzo di un proprio meccanismo, l'illusione sarebbe stata completa.
In una gabbia un pappagallo saltellava da una stecca all'altra del trampolino, beccava il mangime, strillava: "Cocò! Cocò!"
"Questo però è vivo," disse il capitano.
"No; guardi bene. E mangia, e digerisce il mangiare, come la celebre oca del mio antenato. Ho riprodotto pure il suo sonatore di flauto! Le recenti innovazioni dell'Edison mi hanno dato il mezzo di raggiungere un perfezionamento che il mio antenato non sognava neppure. I miei automi parlano, cantano, fanno brindisi, recitano poesie, grazie a minuscoli fonografi fatti costruire apposta."
E il vecchio si accostò a un personaggio tutto vestito di nero, ritto davanti a un tavolino, quasi stesse per cominciare una conferenza. Toccò un bottone, e il personaggio subito chinò la testa in segno di saluto al pubblico, tossì e cominciò: "Signore e signori!"
Nino, durante tutto questo, non aveva fatto altro che stringere sempre più forte le mani del babbo; ma davanti a quell'automa dal cranio pelato, con la bocca sdentata, che girava gli occhi e gesticolava rabbiosamente, vomitando insulti contro la razza umana, fu preso da invincibile terrore e cominciò a strillare: "Babbo, andiamo via! Andiamo via!"
Piangeva, si dibatteva, premendo la faccia contro il petto del babbo, e non c'era modo di rassicurarlo.
"Lo scusi," disse il capitano rivolto al vecchio. "Quel che qui si vede è così straordinario, che io stesso non saprei dire se la mia maraviglia e il mio stupore non siano mescolati anch'essi con un po' di paura."
Il conferenziere fu fatto tacere.
Nino aveva parlato del cane da cui era stato guidato dalla spiaggia alla casa.
"E' un automa anch'esso?" domandò il capitano, che ormai credeva possibile ogni più strano miracolo.
"No, il cane è proprio vivo. Ma è così addestrato che può passare per un automa. Non isbaglia mai. Gli automi, disseminati pel parco, vengono messi in movimento da lui. Permettete che io rimandi questi signori a loro posto, e potrete convincervene coi vostri occhi."
Un altro giro di manovella e in un attimo la sala era sgombrata.
Nelle pareti si erano improvvisamente spalancati usci invisibili, gli automi erano rientrati nelle loro nicchie, e gli usci si erano richiusi. Botole si erano sprofondate in vari punti del pavimento, avevano inghiottito parecchi personaggi, e si erano richiuse anch'esse.
La casa aveva preso l'aspetto di una casa ordinaria.

Il capitano aveva fretta di tornare al suo bastimento per sorvegliare i lavori di riparazione che gli uomini dell'equipaggio avevano intrapresi.
Sul punto di congedarsi, il vecchio gli disse: "Voi siete stato il primo e forse anche l'ultimo visitatore di questo grande scoglio. La formazione delle sue coste non ha fatto mai sospettare che potesse essere abitato; le rocce, che lo circondano, impediscono agli occhi indiscreti di vederne l'interno. Vi prego di non rivelare questo segreto a nessuno."
"Mi concederete almeno il permesso di ritornarvi, se le circostanze me lo consentiranno?" rispose il capitano.
Il vecchio accennò di sì; ma, nel sorriso con cui accompagnava il cenno, c'era tale espressione di tristezza, che il capitano non poté trattenersi dal domandargli che cosa volesse significare.
"Sono vecchio; e quando sarò morto, sarà sparita anche questa parte di scoglio."
"Come?"
"L'elettricità la farà saltare in aria."
"E i suoi uomini?"
"Per loro non c'è timore. Alla mia morte abbandoneranno lo scoglio e saranno ricchi."
"Sono brava gente. Essi dovrebbero farla ricredere dalla sua diffidenza sull'onestà umana. Avrebbero potuto assassinarlo, impossessarsi delle sue ricchezze..."
"Non sarebbe stato tanto facile! Uno di loro, che tentò d'infrangere il divieto di passare il limite del parco, pagò la sua imprudenza con la vita."
"Io, dunque, se fossi approdato in un punto dello scoglio..."
"Non poteva approdare in altro punto che in quello dove è approdato."

Erano passati parecchi anni. Nino era già diventato un valente marinaio anche lui. Suo padre faceva l'ultimo viaggio e la curiosità lo spinse a deviare dalla strada, che avrebbe dovuta percorrere secondo le carte. Aveva stentato non poco per ritrovare in mezzo all'oceano quello scoglio fuori mano.
Nino non era meno curioso di lui; quel che aveva visto anni addietro gli era rimasto sì impresso nella memoria; ma gli sembrava più il ricordo di un sogno, che la evocazione di una realtà.
Approdarono nello stesso seno, ma trovarono che già gli abitanti erano ridotti a quattro soltanto.
"E il vecchio?"
"Morto!"
"E il parco?"
"Saltato in aria! Ci aveva detto: 'Quando per tre o quattro giorni non darò segno di vita, sfasciate quella cassetta di ferro, e toccate il bottone che troverete nell'interno...' Obbedimmo! e lo scoglio tremò come per terremoto... La casa era in fiamme, il parco mezzo distrutto... Verso sera non rimaneva più niente di quel che la mattina era un paradiso."
I due marinai rimasero pensosi e non osarono inoltrarsi nell'interno per vedere lo spettacolo di quella distruzione.
"Quell'uomo è vissuto felice," disse Nino.
"Chi lo sa!" rispose il padre. "Qualche volta io credo che abbia dovuto avere dei rimorsi."
"Di che?"
"Di avere speso tutto il suo ingegno, tutta l'attività nel creare questi automi, mentre avrebbe potuto fare tanto bene a creature vive."
"Chi lo sa!" rispose Nino.
Con loro quella volta lasciarono lo scoglio i superstiti, felici di ritornare in mezzo agli uomini, quando avevano perduto ogni speranza di rivedere facce umane.

(Luigi Capuana, Quattro viaggi straordinari. Solfanelli, 1992)